Occupati Hogwarts e il mondo della magia, Voldemort e i Mangiamorte hanno ormai un solo obiettivo: disperdere l’Esercito di Silente e uccidere Harry Potter, alla ricerca spasmodica degli ultimi Horcrux. Individuati con l’immancabile aiuto di Ron e Hermione gli oggetti e i soggetti viventi che contengono l’anima frantumata e separata dal corpo del Signore Oscuro, i tre ragazzi hanno soltanto bisogno di tempo per raggiungere quelle schegge di anima e farne scempio. Ripiegati a Hogwarts, presieduta da Severus Piton e difesa da dissennati dissennatori, Harry e compagni vengono accolti trionfalmente da Neville Paciock e il suo esercito di dissidenti armati di bacchetta e coraggio, il coraggio di esporsi al dolore e alla morte dimenticandosi della propria salvezza in nome di un bene superiore. Nella furia della battaglia Harry scoprirà che tra il bianco di Silente e il nero di Piton esiste una zona grigia e una lacrima rivelatrice di ben altre verità. Recatosi al Pensatoio e versato il pianto e i ricordi di Piton, Harry saprà finalmente cosa fare per annullare Voldemort. Recatosi nella Foresta Proibita per affrontarlo, il giovane mago abbraccerà la possibilità della morte, guadagnando la salvezza e il futuro. Quello magico e quello babbano.
È da sempre il duello la soluzione alle tensioni create dalla narrazione e all’antitesi dei valori proposti. Lo sa bene David Yates, che alla sua quarta realizzazione punta l’obiettivo su quell’atto decisivo dell’intreccio, sullo scontro fisico tra l’eroe e il suo opponente schierati all’interno delle rovine di Hogwarts, contenitore e palcoscenico dell’epilogo. Spedendo al suolo Lord Voldemort come un volgare villain, Harry, in piedi contro un cielo grigio e spento dal 3D, raccoglie il valore in gioco nello scontro. Valore anticipato nella prima parte dei doni della morte, che dichiarava l’analogia con la logica del fascismo e l’ascesa del Nazismo. Il progetto di purificazione razziale di Voldemort, drammaticamente affine all’ideologia razzista hitleriana, ha sterminato senza pietà i mezzosangue, costringendo i sopravvissuti alla clandestinità. Sacrificata letteralmente la generazione dei padri, a resistere sulla scena e nel secondo atto troviamo i figli, lontani dall’egocentrismo dell’infanzia, emancipati dal disordine dell’adolescenza e abili a ‘sbarcare’ sulle sponde di Hogwarts con un’arma più potente di un incantesimo: la capacità di amare e di riconoscere l’altro nella sua singolarità. Portatori sani di un’idea di giustizia e di società giusta e aperta, dove convivere e contaminarsi. Di quel mondo, avviato da Albus Silente e minacciato costantemente da Tom Riddle, Harry è l’eroe dell’apertura, colui che porta in sé proprio ciò contro cui combatte, perché la Rowling non si limita a metterli l’uno contro l’altro ma, forzando la geometria frontale del duello, li mette l’uno nell’altro. Insieme a Voldemort la saga di Harry Potter esala l’ultimo respiro e lascia orfani una messe inestimabile di spettatori che per dieci anni hanno visto crescere, amare, lottare e invecchiare il maghetto di Privet Drive. Iniziato all’età adulta nel tempo di sette libri e otto film, il sempre uguale Harry Potter è stato affidato a Daniel Radcliffe, che tra azioni magiche e prodigi naturali, ha trovato il tempo di essere attore nei teatri e nel mondo normale dei babbani. Con sacrificio, fedeltà e intraprendenza lo hanno accompagnato Rupert Grint (Ron) e Emma Watson (Hermione), braccati, marchiati e torturati ma sempre pronti a sbrigarsela come potevano dentro camere segrete, foreste proibite, banche o paioli magici. Defezionato da Spielberg, impostato dallo sguardo di Chris Columbus, veterano di film con bambini protagonisti, (pro)seguito dal sentimento dark del messicano Alfonso Cuarón, cresciuto coi turbamenti adolescenziali di Mike Newell e aggiudicato fino all’ultimo respiro e all’ultimo mago a David Yates, Harry Potter al cinema si è (purtroppo) limitato a ‘fotocopiare’ i celebri romanzi, eccedendo nella tecnica, nelle convenzioni, negli effetti e dimenticando troppo spesso di produrre la magia. Confezioni sempre troppo lunghe e quasi nulla impegnate nella costruzione dei personaggi, quelle biografie ideali magnificamente immaginate per ognuno di loro dalla Rowling. A dare loro la vita ci hanno pensato tuttavia gli attori, che la scrittrice ha preteso inglesi. Sono loro i produttori di incantesimi che hanno riempito le sale e incantato le masse babbane. Su tutti Alan Rickman, signore di tempeste emotive concentrate in una lacrima che rivela commossa il rovescio del male.
È da sempre il duello la soluzione alle tensioni create dalla narrazione e all’antitesi dei valori proposti. Lo sa bene David Yates, che alla sua quarta realizzazione punta l’obiettivo su quell’atto decisivo dell’intreccio, sullo scontro fisico tra l’eroe e il suo opponente schierati all’interno delle rovine di Hogwarts, contenitore e palcoscenico dell’epilogo. Spedendo al suolo Lord Voldemort come un volgare villain, Harry, in piedi contro un cielo grigio e spento dal 3D, raccoglie il valore in gioco nello scontro. Valore anticipato nella prima parte dei doni della morte, che dichiarava l’analogia con la logica del fascismo e l’ascesa del Nazismo. Il progetto di purificazione razziale di Voldemort, drammaticamente affine all’ideologia razzista hitleriana, ha sterminato senza pietà i mezzosangue, costringendo i sopravvissuti alla clandestinità. Sacrificata letteralmente la generazione dei padri, a resistere sulla scena e nel secondo atto troviamo i figli, lontani dall’egocentrismo dell’infanzia, emancipati dal disordine dell’adolescenza e abili a ‘sbarcare’ sulle sponde di Hogwarts con un’arma più potente di un incantesimo: la capacità di amare e di riconoscere l’altro nella sua singolarità. Portatori sani di un’idea di giustizia e di società giusta e aperta, dove convivere e contaminarsi. Di quel mondo, avviato da Albus Silente e minacciato costantemente da Tom Riddle, Harry è l’eroe dell’apertura, colui che porta in sé proprio ciò contro cui combatte, perché la Rowling non si limita a metterli l’uno contro l’altro ma, forzando la geometria frontale del duello, li mette l’uno nell’altro. Insieme a Voldemort la saga di Harry Potter esala l’ultimo respiro e lascia orfani una messe inestimabile di spettatori che per dieci anni hanno visto crescere, amare, lottare e invecchiare il maghetto di Privet Drive. Iniziato all’età adulta nel tempo di sette libri e otto film, il sempre uguale Harry Potter è stato affidato a Daniel Radcliffe, che tra azioni magiche e prodigi naturali, ha trovato il tempo di essere attore nei teatri e nel mondo normale dei babbani. Con sacrificio, fedeltà e intraprendenza lo hanno accompagnato Rupert Grint (Ron) e Emma Watson (Hermione), braccati, marchiati e torturati ma sempre pronti a sbrigarsela come potevano dentro camere segrete, foreste proibite, banche o paioli magici. Defezionato da Spielberg, impostato dallo sguardo di Chris Columbus, veterano di film con bambini protagonisti, (pro)seguito dal sentimento dark del messicano Alfonso Cuarón, cresciuto coi turbamenti adolescenziali di Mike Newell e aggiudicato fino all’ultimo respiro e all’ultimo mago a David Yates, Harry Potter al cinema si è (purtroppo) limitato a ‘fotocopiare’ i celebri romanzi, eccedendo nella tecnica, nelle convenzioni, negli effetti e dimenticando troppo spesso di produrre la magia. Confezioni sempre troppo lunghe e quasi nulla impegnate nella costruzione dei personaggi, quelle biografie ideali magnificamente immaginate per ognuno di loro dalla Rowling. A dare loro la vita ci hanno pensato tuttavia gli attori, che la scrittrice ha preteso inglesi. Sono loro i produttori di incantesimi che hanno riempito le sale e incantato le masse babbane. Su tutti Alan Rickman, signore di tempeste emotive concentrate in una lacrima che rivela commossa il rovescio del male.
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